martedì 8 aprile 2008

REPRESSIONE ARMATA IN TIBET E SILENZIO SULLA CONDIZIONE DEI LAVORATORI CINESI

In queste ultime settimane si sono levati cori di sdegno verso la repressione delle proteste tibetane da parte delle forze di polizia della Repubblica Popolare Cinese.
Tutti i maestranti della politica di qualsiasi colore, davanti alle violenze sui manifestanti (e mai prima, lontano dai riflettori) hanno espresso parole di condanna nei confronti della Cina e sostegno alla causa di indipendenza del Tibet.
Si sono sentiti tutti in dovere, in Italia come in Europa e negli Usa, di protestare, giudicare e condannare, ma le proteste, i giudizi e le condanne si sono dimostrate spesso opportunistiche e sempre superficiali.
Premesso che il diritto di autodeterminazione dei popoli pare valere a corrente alternate., a secondo dei rapporti d’interesse geopolitici (il Medioriente insegna), tutte le denunce nei confronti della Cina si soffermano sempre nel particolare della questione tibetana e celano la triste realtà del sistema capitalista cinese.
Negli ultimi decenni, i capitalisti europei ed americani hanno fatto enormi fortune investendo massicciamente in Cina, paese che è diventato un paradiso per i profitti capitalistici e un inferno di supersfruttamento per il proletariato.
Secondo i dati della Banca Mondiale, tra il 1990 e il 2001, il rapporto tra il 20% della popolazione più ricca e il 20% più povero è salito dal 6,5 al 10,6.
Quella cinese è la società più diseguale di tutta l’Asia, nella quale più di 170 milioni di cinesi vivono con meno di un dollaro al giorno.
Il processo di proletarizzazione dei contadini poveri procede inesorabilmente con migliaia di persone che sono costrette ad abbandonare le proprie case per essere inseriti nel sistema di produzione capitalista.
Le condizioni della classe operaia sono simili a quelle dei lavoratori nell’Inghilterra ottocentesca: l’80% di tutte le morti per lavoro tra i minatori, a livello mondiale, avvengono in Cina, fatto che dimostra come il paese si stia trasformando nel terreno di un capitalismo che estrae plus-valore dalle masse produttive.
Le responsabilità di questa disastrosa situazione sono da attribuire al Partito Comunista Cinese e agli organi ad esso asserviti, i quali non si sono limitati ad essere semplici delegati del capitalismo, trasformando essi stessi in un settore importante della nuova classe dei proprietari.
Dal particolare della situazione tibetana, quindi, occorerebbe passare ad una denuncia degli aspetti generali che caratterizzano la situazione cinese, interpretandola come l’ennesima espressione della barbarie del capitalismo internazionale.
Allo sdegno per la repressione in Tibet dovrebbe allora associarsi anche lo sdegno per un sistema capitalista che ammorba la maggioranza della popolazione operaia e contadina.

Nessuna contrapposizione è però utile tra un capitalismo occidentale “buono” e un capitalismo cinese selvaggio e repressivo; utile è invece una solidarietà reale tra le classi lavoratrici di tutto il mondo contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Raagaazzii...dite cose interessanti...sembra un blog interessante..ma dovete farvi un pò di pubblicità...non commenta nessuno!! Vi aiuterò anche io...